C’è chi resiste. Agli alberi abbattuti, ai suoli avvelenati, alle terre svendute. Alle minacce, ai soldi, al deserto. Alle monocolture e alle monoculture. C’è chi resiste.
C’è chi resiste. Agli alberi abbattuti, ai suoli avvelenati, alle terre svendute. Alle minacce, ai soldi, al deserto. Alle monocolture e alle monoculture. C’è chi resiste.
Villa Pacinotti è un luogo fuori dal tempo. Fuori dal tempo perso. E dal tempo sprecato. Fuori dalla frenesia e dalla città. Dall’inquinamento e dal chiacchiericcio. Un po’ fuori dal tempo presente, con un occhio al passato e uno al futuro. Un po’ di qua e un po’ di là. Da un lato tutela e conserva patrimoni di incredibile valore, utensili, strumenti, buone pratiche, conoscenze antiche e ancora utili, saggezze non più comuni. Dall’altro guarda lontano. Con lungimiranza e attenzione. E si prepara. Per chi viene dopo, per chi ci sarà.
Finalmente ce l’ho fatta! Ho visitato il Bosco di Ogigia!
In Toscana, nel comune di Montepulciano, tra campi arati e vigneti irrorati c’è un pezzetto di terra sottratto ai pesticidi e agli aratri. Poco più di un quarto di ettaro di natura felice. Eccolo il Bosco di Ogigia!
Immagini, slogan, colori, luci, musiche, odori… tutto in quella corsia dice: Comprami!. E, molto spesso, il bravo consumatore, ubbidisce. Non c’è scelta. Non è un atto razionale. Anni di studi, fiumi di soldi, bombardamenti mediatici, lavaggi del cervello e tecniche sempre più affinate ci hanno condotto fin qui: a fidarci della pubblicità. A essere persuasi dalla comunicazione. A non fare domande. Ad agire d’istinto, per abitudine o assuefazione.
Quando ho iniziato a mappare le realtà che mi hanno permesso di vivere senza supermercato sono partita dal mio quartiere, per poi allargarmi al Municipio e finire con Roma e oltre. Mai avrei pensato che una simile idea potesse piacere tanto e che moltissime persone fossero così felici di farne parte.
Diciamolo, durante le feste quasi tutto ruota attorno al cibo. Quello della tradizione, dicono. Ma siamo sicuri che sia così? Perché di cibi industriali nel passato non c’è traccia. E allora riscopriamola la nostra tradizione.
Ovvero: come affrontare le feste natalizie senza ricorrere alla Grande Distribuzione Organizzata. Facendo un regalo a sé stessi, all’ambiente, al portafoglio, ai propri cari e a tantissime altre persone!
Questo non solo significa lasciare un’eredità pesantissima alle prossime generazioni ma anche far pagare il nostro debito a tutti i popoli del mondo. Anche a chi queste risorse non le sta consumando e questi rifiuti non li sta producendo.
Perché se l’overshoot day è un dato globale, non significa che tutti abbiano le stesse responsabilità. Paradossalmente, proprio chi ha meno colpe sta pagando il prezzo più alto.
Com’è possibile? E’ presto detto: il nostro debito non dipende dalle nostre possibilità economica ma dalla nostra impronta ecologica. Tutto ciò di cui disponiamo deriva direttamente o indirettamente dalla natura: cibo, acqua, abiti, edifici, mezzi di trasporto, energia, tecnologia. Tutto. L’umanità ha bisogno di quello che fornisce la natura. Ma come sappiamo quanto stiamo utilizzando e quanto abbiamo an- cora a disposizione? Per scoprirlo bisogna calcolare la propria impronta ecologica, ossia il rapporto tra le risorse naturali che si consumano e la capacità della Terra di rigenerarle e di smaltire i rifiuti prodotti.
Più precisamente, seguendo il lavoro di Mathis Wackernagel e William Rees, definiamo l’impronta ecologica come “l’area totale di ecosistemi terrestri e acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione di una comunità consuma, e assimilare i rifiuti che la popolazione stessa produce” (Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, New Society 1998).
Per calcolarla si prende in esame lo stile di vita di un singolo individuo, una comunità o uno Stato e si mette in relazione con la capacità di un determinato territorio di supplire a quei consumi. Il risultato può essere espresso in ettari, che rappresentano la quantità di superficie terrestre necessari a sostenere quel determinato stile di vita, oppure lo si può esprimere da un punto di vista energetico, calcolando l’emissione di biossido di carbonio e, di conseguenza, la quantità di terra forestata necessaria per assorbire le tonnellate di CO2 prodotte (Carbon footprint). Queste cifre ci danno la misura di quanto le nostre abitudini siano o meno sostenibili per questo pianeta (potete calcolare la vostra impronta su www.im- prontawwf.it).
I risultati del test ne sono certa vi sorprenderanno! Lo posso affermare con certezza perché io, dopo un anno di accortezze ecologiche e scelte sostenibili, mi sono ritrovata comunque con un mostruoso debito nei confronti di questo pianeta e di tutti i suoi abitanti. E vi chiedo scusa per questo. Se tutti vivessero come me oggi all’umanità servirebbero quasi 2 pianeti Terra (1,8 per la precisione). Tantissimo, ma comunque molto meno dei 3 pianeti Terra (3,6) di cui necessitava il mio stile di vita prima di smettere di andare al supermercato e di cambiare alimentazione. Per dirla in maniera diversa, oggi i miei consumi necessitano di circa 4 ettari di Terra, mentre prima me ne servivano quasi 8. Un’enormità se si pensa a quanto ci spetti davvero. Secondo i calcoli del WWF, infatti, ognuno di noi, in quanto abitante di questo pianeta, avrebbe a disposizione un budget di circa 2 ettari di superficie.
Ma, come sempre accade, essendo la Terra una torta unica, se qualcuno si prende la fetta più grande, gli altri devono accontentarsi delle briciole. Tant’è che, sebbene gran parte della popolazione del mondo viva ancora oggi di sussistenza, con livelli di consumo minimi, le risorse della Terra si stanno esaurendo sempre più in fretta a causa dei modelli di produzione e consumo dei paesi sviluppati. Sempre i dati del WWF ci raccontano che i paesi ricchi hanno un’impronta ecologica in media 5 volte superiore a quella dei paesi più po- veri. Per esempio, l’impronta ecologica di un americano medio è di 9,6 ettari globali per persona, quella di un europeo è di 4,8 ettari e quella di un pakistano di 0,7 ettari. Se consideriamo solamente il nostro Paese vediamo che, a fronte di una capacità ecologica di circa 1,1 ettari di superficie a persona, la nostra impronta ecologica è pari a ben 3,8 ettari.
Questo significa che per sostenere i nostri consumi nazionali abbiamo bisogno di una superficie pari a 3,5 volte quella realmente disponibile, che ovviamente recuperiamo da quei paesi che hanno un’impronta ecologica ancora in attivo. L’Italia è una famiglia che sperpera più di quanto guadagna, spreca ciò che non possiede e butta più di quanto può smaltire. “Che novità”, mi direte. La novità sta nel fatto che ognuno di noi può fare tantissimo, da subito, per cambiare le cose! Anche e soprattutto partendo dai propri consumi. Non possiamo continuare a gravare in questo modo sul pianeta e sugli altri popoli. Le conseguenze delle nostre abitudini, della nostra pigrizia e della nostra ignoranza sono pagate da tutti e continueranno a gravare anche sulle future generazioni. Che debito vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi? Non è forse giunto il momento di fare qualcosa di concreto per cambiare le cose?
Vivere senza supermercato… ma chi me lo fa fare?! L’avrete pensato in molti. Comodi, economici, super organizzati, i centri commerciali offrono tutto e a poco. In apparenza. Perché nella pratica il costo della maggior parte dei prodotti commerciali è altissimo: sfruttamento, inquinamento, danni alla salute dei consumatori, iniquità e ingiustizie. Tanti motivi (più uno) per dire addio alla grande distribuzione organizzata.
Riporto il comunicato dell’Ispra in relazione alla Giornata nazionale del 5 febbraio sullo spreco alimentare. Proprio nei mesi scorsi l’istituto di ricerca ha pubblicato il Rapporto Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali, uno studio più che mai illuminante sullo spreco alimentare nazionale e globale, dalla produzione al consumo.