C’era una volta il porceddu sardo. Per chi lo mangiava una prelibatezza, per chi non lo mangiava una meraviglia per gli occhi. Perché qui il maialino, insieme a tante altre specie, vive libero e felice.
Siamo nel supramonte di Urzulei, tra l’Ogliastra e la Barbagianella. Il cuore della Sardegna. E davvero con il cuore generazioni e generazioni di sardi hanno allevato questa e altre bestiole che oggi portano nel sangue geni millenari (proprio così! Dalle analisi fatte alle mucche nuragiche, per esempio, si è scoperto che il loro patrimonio genetico autoctono risale addirittura a 4000 anni fa). “Qui grazie ai maiali hanno mangiato intere famiglie, i figli hanno studiato, si sono fatti casa e il lavoro non è mai mancato” ci raccontano.
Poi è arrivata la peste suina. “Bisogna abbatterli tutti!”, è il parere di Asl e Unione Europea. “Solo pochi sono infetti e le soluzioni esistono”, replicano gli allevatori e alcune amministrazioni locali, senza essere ascoltati.
E così inizia la mattanza. Migliaia di suini ammazzati a colpi di arma da fuoco. I corpi ammassati vengono sepolti in fosse comuni. “Proprio sopra le falde acquifere” denunciano i cittadini. Ma tant’è. Le leggi si fanno sempre più restrittive per chi alleva, sempre più morbide per chi abbatte.
Chi si oppone alle soppressioni viene multato, minacciato, indagato. Come il sindaco di Desulo, Gigi Littarru, chiamato a rispondere davanti al giudice per essersi rifiutato di emanare un’ordinanza di abbattimento dei maiali del suo comune.
Intanto in Barbagia è interdetto l’accesso a tutti, anche agli allevatori che vorrebbero andare a mungere i propri capi. C’è chi ci prova lo stesso, a piedi, tra i monti. Ma si trova di fronte l’esercito. Sembra una storia antica, ma succede tutto in questi anni.
Di miglia di esemplari ne restano poche centinaia, decine forse. “Ora c’è da ricostruire una nuova filiera”, annunciano le associazioni di categoria. Più produttiva, più veloce, più redditizia. Addio al porceddu sardo e all’allevamento allo stato brado. Addio a quei sapori, all’autosufficienza e al lavoro di intere famiglie, alle tradizioni, alla coltura e a quei paesaggi. Benvenuti allevamenti intensivi, maiali migliorati, grandi produzioni.
Un allevatore novantenne con la coppola in testa che piange seduto sotto un leccio millenario è l’immagine più triste che mi rimarrà di questa storia. Una storia che si ripete ovunque. Le chiamano “emergenze”, ma non sono altro che pretesti per imporre dei sistemi produttivi che soggiogano i produttori e avvelenano le persone e la terra. Arricchendo pochi e affamando tutti. Qui come altrove.