Con l’arrivo della primavera non c’è niente di meglio di una bella insalata. Magari “già pronta da condire”. Comoda, pratica, veloce… ma a che prezzo?
Insalata in busta: leggiamo l’etichetta
Non è facile scoprirlo. Sulle confezioni si trovano tutte le informazioni, tranne quelle realmente utili. In bella mostra c’è la data di scadenza (perché l’insalata in busta non funziona come quella normale, che si vede a occhio nudo quando è da buttare), ma non c’è il giorno e il luogo in cui è stata raccolta. E ancora: c’è l’indicazione “già lavata e tagliata”, ma non c’è scritto come.
Un pre-lavaggio, un lavaggio, un risciacquo in acqua potabile e un processo di sanitizzazione nel quale viene utilizzato anche cloro, per eliminare la carica batterica, senza nemmeno riuscirci totalmente. Uno studio dell’Università di Torino afferma infatti che su 100 buste esaminate sono stati riscontrati Escherichia coli, nel 3% dei casi, Enterobacter sakazakü, nel 10%, Pseudomonas nel 17% e Staphylococcus nel 18%.
Insalata in busta: gli sprechi
Le uniche cose certe del processo di confezionamento di questi alimenti sono la perdita di molte proprietà nutritive e gli enormi sprechi (primo fra tutti quello di acqua). Dal 2011, inoltre, è entrato in vigore per legge il controllo della catena del freddo. Questo significa che produttori e distributori devono garantire una temperatura inferiore agli 8°C fino al momento dell’acquisto da parte del consumatore e che gli stabilimenti produttivi devono avere aree di lavorazione con temperature non superiori ai 14°C, con almeno 2 vasche di lavaggio a ricircolo continuo di acqua.
Pensate a quale sia il dispendio di energia necessario per “tutelare” la freschezza di questi prodotti. Per non parlare poi del packaging, ovviamente in plastica. Se poi, alla fine, vogliamo guardare anche il prezzo, l’inganno è servito: “solo 1,00 €” per 100 grammi, significa che stiamo spendendo ben 10,00 € al chilo (ma anche 30 € al chilo se biologica). Non bruscolini insomma, per un piatto d’insalata.